#Fulbright70. Intervista al Prof. Franco Ferrarotti, ex-borsista Fulbright del 1951

Foto presa da www.francoferrarotti.com

In occasione del 70esimo anniversario della Commissione Fulbright (1948-2018) il Prof. Franco Ferrarotti, eminente sociologo, Professore Emerito di Sociologia de La Sapienza – Università di Roma, tra i primi borsisti Fulbright a partire per gli Stati Uniti nel 1951 ci ha rilasciato un’intervista.

Il Professor Ferrarotti ripercorre gli anni di studio a Chicago come borsista e la ricaduta positiva, per la propria carriera accademica.

Prof. Ferrarotti, come è venuto a conoscenza della borsa di studio Fulbright?

Non ero affatto a conoscenza del Programma Fulbright, né delle borse di studio disponibili e andare negli Stati Uniti non rientrava nei miei piani di allora. Alla fine degli anni 40, esattamente nel 1949, avevo tradotto e pubblicato tre libri presso Einaudi. Il primo era di un sociologo ed economista statunitense di origine norvegese “La teoria della classe agiata” di Thorstein Veblen, il secondo era di Teodoro Reik, “Il rituale dei primitivi”, mentre il terzo era un romanzo dell’unico scrittore statunitense, romanziere di sinistra, che si chiamava Howard Fast ed il titolo era “Sciopero a Clarkton”. Fu un anno intenso il 1949 e mi sentivo un giovane sicuro e spavaldo.

Invece, nel 1950 persi due carissimi amici: Cesare Pavese, che si suicidò, e Massimo Olivetti, colto da una morte improvvisa. Preso dallo sconforto, e non sapendo cosa fare, mi trasferii a Milano, e un giorno mi ritrovai in Via Case Rotte, 5 -al primo piano- dove all’epoca si trovava la biblioteca USIS (United States Information Service).

Un giorno, non trovando dei titoli che ritenevo interessanti, iniziai a lamentarmi ad alta voce. Un signore che si aggirava per quelle stanze, vestito in modo informale (con degli occhiali, stanghette d’oro, ma senza giacca), si avvicinò e mi chiese perché mai mi stessi lamentando. Alle mie osservazioni sulla mancanza di volumi sulla sociologia, mi suggerì di andare negli Stati Uniti per soddisfare la mia sete di conoscenza. Con molta naturalezza, con un atteggiamento che solo un vero civil servant può avere, mi invitò a seguirlo in una stanzetta in cui iniziò a battere a macchina una lettera e, senza che me ne rendessi conto, mi consegnò un foglio da firmare, che poi scoprii essere la mia candidatura alla Fulbright. Io la firmai – all’epoca avrei firmato qualunque cosa- e pochi mesi dopo mi arrivò il biglietto per partire da Genova sulla bianca nave Atlantic: era il 1951.

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Foto presa dal libro “A colloquio con Franco Ferarotti” (Google Libri)

Quest’uomo, a cui va tutta la mia riconoscenza, si chiamava Mike Bullard ed era il Direttore Generale delle Biblioteche USIS in Europa. Fu un incontro del tutto casuale, che mi ha cambiato la vita. La borsa mi fu rinnovata e rimasi per un altro anno e mezzo fino al 1953. Ricordo che Adriano Olivetti spingeva per farmi rientrare in Italia e mi venne anche a trovare a Chicago. In sostanza, fu un’esperienza straordinaria. Sono diventato un borsista Fulbright senza saperlo né volerlo, in maniera causale. Basterebbe questa frase per risolvere molti dei nostri problemi di oggi.

Nel Natale del 1951 fui invitato ad andare a Fayetteville in Arkansas, dal mio amico Frederick Friedman che con la famiglia era lì che insegnava filosofia. E in una riunione all’università vidi da lontano il grande Senatore Fulbright. Ebbi l’occasione di parlargli e gli domandai: “Ma come mai proprio il più povero stato degli Stati Uniti si fa promotore, investendo dei soldi, in questo progetto di scambio culturale che coinvolge l’Europa?”. Ricordo la sua risposta, la ricorderò tutta la vita: “Bisogna dare per ricevere”.

Che cosa è andato a studiare esattamente negli Stati Uniti?

Ho soprattutto lavorato all’università di Chicago, dove ho condotto ricerche anche sul campo tra i sindacati, grazie a uomini come David Easton, Ernst Burgess, Louis Wirth e altri molto famosi del Dipartimento di Scienze Sociali come Edwards Shils.

All’epoca scrissi un paper: “Il ruolo dell’ideologia nell’azione sindacale”, che suscitò un enorme interesse, perché l’esperienza sindacale negli USA era legata al business unionism. Mi chiamò subito Frederick Addison, che mi disse che avevo scritto a “deadly paper”. E anche Shils anni dopo ricordò come quel paper avesse dato risonanza a tematiche come il sindacalismo ideologico, che negli Stati Uniti non erano ancora state affrontati, anzi non si pensava nemmeno che potessero esistere.

A Chicago ebbi molta fortuna. La Fulbright mi diede la possibilità di capire i valori dell’esperienza politica e sindacale negli Stati Uniti che, portati in Italia, diedero un certo frutto con la UIL e la CISL e la stessa CGIL dovette diventare meno politica e più legata alla realtà della fabbrica.

Nel 1951 era cancelliere dell’università -all’ultimo anno del suo mandato- Robert Hutchins che per accentuare l’aspetto intellettuale dell’università aveva abolito la squadra di football: Chicago era l’unica università statunitense senza la squadra di football. Ed era negli scantinati dell’università che Ernico Fermi ottenne i primi risultati della scissione dell’atomo, pensi che tempi.

Comunque, all’epoca Chicago era il fulcro di un’attività intellettuale straordinaria, con studiosi che venivano da vari paesi del mondo e con cui era possibile confrontarsi: fu importante per i miei studi soprattutto l’impostazione interdisciplinare delle varie discipline sociali. E durante la mia permanenza mi convinsi che anche in Italia si sarebbe potuta approfondire la sociologia con questo nuovo approccio e nonostante le ritrosie anche dei miei amici, per esempio Abbagnano, insistetti, avendo poi ragione: dopo pochi anni, nel 1960, la prima cattedra di Sociologia in Italia fu mia. E la ottenni proprio grazie agli anni passati come Fulbright Scholar all’Università di Chicago.

Aggiungo che al mio rientro in Italia continuai ad approfondire la tematica e a pubblicare: il mio primo libro fu “Il dilemma dei sindacati americani”. L’esperienza negli Stati Uniti mi permise di portare in Italia la ricerca sul campo, una completa innovazione, come quella condotta sulle periferie romane, resa possibile, come impianto teorico, grazie alla mia esperienza negli Stati Uniti e che portò al libro “Roma da capitale a periferia”.

A Chicago, insieme a Luis Wirth, il famoso urbanista inventore dell’urbanism as a way of life, facemmo parte dell’anticrime committee in the Kentwood area di Chicago e lì potei condurre delle ricerche durante la prima campagna elettorale per la presidenza degli Stati Uniti condotta da Adlai Stevenson, nel 1952 (contro il Generale Eisenhower!), all’epoca governatore dell’Illinois. Stevenson era un grande e raffinato uomo politico di cultura. Contribuire alla sua campagna elettorale fu una grande esperienza, che mi offrì un punto di vista unico sulle dinamiche delle campagne elettorali negli Stati Uniti, condotte con il porta a porta. Fu feconda la mia collaborazione, con Frank Annunzio il labor director dello stato dell’Illinois, fidato collaboratore di Stevenson. Annunzio mi coinvolgeva sempre in varie attività anche con gli italo-americani di Chicago. In particolare, ricordo la volta in cui mi portò a tenere una serie di conferenze sul Risorgimento e Garibaldi nell’albergo Como-Inn, conosciuto come luogo di riunioni di mafiosi, ma che grazie proprio grazie al mio intervento vide terminare la sua fama di ritrovo per gente poco raccomandabile, per trasformarsi in un luogo di conoscenza e scambio.

Nel corso della vita è tornato varie volte negli Stati Uniti, ci può ricordare altre sue esperienze?

Sono poi tornato nel 1962 alla Columbia, nel 1971 al Graduate Center della City University of New York, nel 1974 alla Boston University, per non dimenticare la Stansford University. E tuttora ho dei rapporti con le università negli Stati Uniti. In tutti questi anni sono riuscito a stringere amicizie disinteressate, amicizie di consonanza intellettuale emotiva e morale. Straordinario. E ho ancora rapporti forti con gli Stati Uniti: mio figlio lavora lì. La Fulbright è stato per me la svolta radicale e anche la possibilità di dire cose dell’Europa agli statunitensi e allo stesso tempo portare in Europa la sociologia americana.

Pensa che l’esperienza di studio all’estero con Fulbright sia ancora significativa per uno studente italiano?

Ai giovani di oggi direi di andarci con un problema. Non si va negli Stati Uniti con una borsa Fulbright senza avere un problema su cui investigare. Io ne avevo uno grosso: fondare sul piano empirico la sociologia. In Italia la sociologia era stata completamente eliminata da Benedetto Croce e Giovanni Gentile dall’università e da tutto. Io avevo cercato di rifondarla nonostante lo scetticismo in Italia e ci sono riuscito. Si va negli Stati Uniti per lavorare in profondità, per trovare i libri che qui non ci sono. Per trovare i mezzi. Io li ho vissuti in questo modo i miei anni lì, anche per approfondire meglio l’Europa e l’interscambio tra culture, per far tesoro della fertilizzazione reciproca: le culture non si sviluppano nell’isolamento. Bisogna costruire dei ponti, non dei muri.